Nina sull’argine: una lettura

La trave sale per aria, nel silenzio del loro fiato sospeso ruota fino a sopra la campata, poi cala piano, sempre più piano, e solo quando mancano pochi centimetri spuntano i carpentieri, si arrampicano ai lati e la accompagnano sugli appoggi, delicatamente. Poi sciolgono l’imbragatura, il verricello oscilla a vuoto, libero dal peso, il braccio si sposta e ricomincia”.

E si ricomincia, certe volte con il fiato sospeso, certe altre dopo un lungo respiro, a edificare o sgombrare il campo. Come può fare il fiume con un argine: con impeto furioso e con il tempo delle stagioni tra carezze liquide e microerosioni. Nina sull’argine è l’ultimo romanzo di Veronica Galletta, una storia che è tante storie, una narrazione composta da molti materiali, tanti vettori imbastiti in una trama di alta “ingegneria poetica”.

btfmdn
Libri e clavicole



Noi siamo con un’ingegnera che riceve il suo primo e importante incarico, ma è scomodo, una rogna per i suoi colleghi: la costruzione di un argine. Espropri, subappalti, verifiche costanti. Tutte azioni che a pensarci nemmeno troppo hanno un riflesso interiore, ci espropriamo, ci erodiamo, ci confrontiamo con impostori, facciamo verifiche all’equilibrio statico degli umori – e qui siamo non a caso nell’ingnegneria idraulica. Come donna, la nostra protagonista, si muove in un ambiente maschile fatto di atteggiamenti paternalistici e “Signora” a incorniciare il tutto.
Quanti stati d’animo comporta un cantiere? Moltissimi, come i materiali, le persone che servono, il saper fare che questo comporta, la responsabilità verso altre persone, il dover dar conto e prova agli altri e a sé stessi. C’è pure chi in questo fare cade, davvero buffo notare che i morti di lavoro e sul lavoro sono tutti neoassunti, sarà l’inesperienza di certo.
Caterina è responsabile di un cantiere complesso, è siciliana, vive al nord Italia, sta attraversando la fine di una lunga relazione e convivenza. Caterina per il mondo, Nina per lei stessa è una donna, non un’eroina; un’essere umano che ci conduce nel suo duro quotidiano, nelle sue più intime negoziazioni, all’interno di dialettiche da scardinare, nel suo imparare e chiedere aiuto, nei fantasmi che di lei si fidano, fin dentro il suo intimo ritmo fin giù, sotto una scrivania.
«Un moto uniformemente accelerato che butti a terra l’inerzia delle ombre.»

Il romanzo ci immerge in una natura poco romantica, che muta come deve e che l’uomo modifica con l’ingegno, c’è tanto paesaggio tra le pagine, siamo in volo d’uccello, al volante di una macchina, negli stivali a pestar ghiaccio e fango. Il paesaggio Nina l’attraversa, non ne è inglobata, Nina sembra staccata tra figura e sfondo, ma in questo suo essere distante impara a stare, a sentire, a capire, a mettersi in gioco. Nina gioca con l’acqua. E Nina attraversa perché vuole d’istinto non condannarsi a «restare fuori dalle cose.»
Lo fa per accomodamento, ”l’unica soluzione è arrendersi”, come fanno i bambini e gli scienziati: con tentativi ed errori.
Nina è in questo attraversamento, prende aria in uno spazio diffuso, mentre lei cerca sempre la stessa cosa: “Un posto dove stare”. Questo suo stato materiale, terreste, resistente, ma in levare rende Nina un essere umano familiare, non simpatica o amabile, ma ci indica un intreccio che ci riguarda.
Il bisogno di farsi dimora nello spazio.
Nina è sull’argine, non ai lati, non si fa trascinare.
Nina è sopra.

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La trave sale per aria, nel silenzio del loro fiato sospeso ruota fino a sopra la campata, poi cala piano, sempre più piano, e solo quando mancano pochi centimetri spuntano i carpentieri, si arrampicano ai lati e la accompagnano sugli appoggi, delicatamente. Poi sciolgono l’imbragatura, il verricello oscilla a vuoto, libero dal peso, il braccio si sposta e ricomincia”.

E si ricomincia, certe volte con il fiato sospeso, certe altre dopo un lungo respiro, a edificare o sgombrare il campo. Come può fare il fiume con un argine: con impeto furioso e con il tempo delle stagioni tra carezze liquide e microerosioni. Nina sull’argine è l’ultimo romanzo di Veronica Galletta, una storia che è tante storie, una narrazione composta da molti materiali, tanti vettori imbastiti in una trama di alta “ingegneria poetica”.

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Noi siamo con un’ingegnera che riceve il suo primo e importante incarico, ma è scomodo, una rogna per i suoi colleghi: la costruzione di un argine. Espropri, subappalti, verifiche costanti. Tutte azioni che a pensarci nemmeno troppo hanno un riflesso interiore, ci espropriamo, ci erodiamo, ci confrontiamo con impostori, facciamo verifiche all’equilibrio statico degli umori – e qui siamo non a caso nell’ingnegneria idraulica. Come donna, la nostra protagonista, si muove in un ambiente maschile fatto di atteggiamenti paternalistici e “Signora” a incorniciare il tutto.
Quanti stati d’animo comporta un cantiere? Moltissimi, come i materiali, le persone che servono, il saper fare che questo comporta, la responsabilità verso altre persone, il dover dar conto e prova agli altri e a sé stessi. C’è pure chi in questo fare cade, davvero buffo notare che i morti di lavoro e sul lavoro sono tutti neoassunti, sarà l’inesperienza di certo.
Caterina è responsabile di un cantiere complesso, è siciliana, vive al nord Italia, sta attraversando la fine di una lunga relazione e convivenza. Caterina per il mondo, Nina per lei stessa è una donna, non un’eroina; un’essere umano che ci conduce nel suo duro quotidiano, nelle sue più intime negoziazioni, all’interno di dialettiche da scardinare, nel suo imparare e chiedere aiuto, nei fantasmi che di lei si fidano, fin dentro il suo intimo ritmo fin giù, sotto una scrivania.
«Un moto uniformemente accelerato che butti a terra l’inerzia delle ombre.»

Il romanzo ci immerge in una natura poco romantica, che muta come deve e che l’uomo modifica con l’ingegno, c’è tanto paesaggio tra le pagine, siamo in volo d’uccello, al volante di una macchina, negli stivali a pestar ghiaccio e fango. Il paesaggio Nina l’attraversa, non ne è inglobata, Nina sembra staccata tra figura e sfondo, ma in questo suo essere distante impara a stare, a sentire, a capire, a mettersi in gioco. Nina gioca con l’acqua. E Nina attraversa perché vuole d’istinto non condannarsi a «restare fuori dalle cose.»
Lo fa per accomodamento, ”l’unica soluzione è arrendersi”, come fanno i bambini e gli scienziati: con tentativi ed errori.
Nina è in questo attraversamento, prende aria in uno spazio diffuso, mentre lei cerca sempre la stessa cosa: “Un posto dove stare”. Questo suo stato materiale, terreste, resistente, ma in levare rende Nina un essere umano familiare, non simpatica o amabile, ma ci indica un intreccio che ci riguarda.
Il bisogno di farsi dimora nello spazio.
Nina è sull’argine, non ai lati, non si fa trascinare.
Nina è sopra.

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La taranta è femmina

Ad un anno dal fortunato “L’altra taranta – Annabella Rossi e il tarantismo nel Cilento” l’autrice, regista e performer campana di casa a Parigi, dona alle stampe la storia completa del fenomeno del tarantismo con una luce inedita verso la comunità scientifica al femminile. Un viaggio emozionale nel profondo grazie alle immagini di Francesca Grispello

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